SERGIO BELLUCCI
Costituzione e comunicazione: nuovi poteri e nuovi diritti nell’era della digitalizzazione
Quali sono le regole che devono presiedere alla vita collettiva? Cosa deve garantire una “Costituzione”? Cosa significa, nel profondo, “Democrazia”?
Domande come queste potrebbero apparire scontate ma, in una fase come quella che stiamo attraversando di profonda ristrutturazione di senso, sia collettiva che soggettiva, appaiono in tutto il loro significato più profondo. La gente sembra aver perso le certezze delle regole, la Storia sembra non più indagabile per cercare orientamenti e linee d’azione, il nuovo assume, di per sé, valore, un senso di smarrimento per l’oggi, che spinge a rifuggiarsi nel futuro, sembra aver avvolto l’intera società occidentale.
Domande come queste, cioè, in un passaggio cruciale della storia di un popolo, di una collettività, sono rilevatrici di correnti sotterranee profonde, di disconnessioni e riconnessioni del senso, di scontri enormi sul terreno dell’egemonia e dei poteri politici, economici e finanziari.
Proprio su questi terreni il nostro paese, per ora unico nell’Occidente sviluppato, ha sperimentato forme assolutamente inedite di risposta. L’avvento di quello che è stato, e a ragione, definito il “partito-azienda”, ne rappresenta, al tempo stesso, l’effetto finale e la causa stessa.
Proprio l’impatto con questa nuova soggettività ha scosso (e scuote) le radici profonde dello stare insieme molto di più di forme “classiche” di tensione come quelle rappresentate dalle gridate volontà secessionistiche di questo o quell’altro gruppo. Perchè viene vissuto così drammaticamente, da larghi strati di popolazione, lo scontro tra un Centro-destra e un Centro-sinistra sempre più simili sul piano dei programmi e delle scelte concrete?
Ma qual’è il codice genetico di questo cambiamento? Quali poteri sta rappresentando e quale idea della politica, della democrazia e delle sue forme rappresenta?
La forma della democrazia, la forma, cioè, della volontà e della sovranità popolare, si è da tempo consolidata in quella della rappresentanza e della delega. Ma questa forma, dobbiamo esserne consapevoli, è storicamente determinata e strettamente legata alla forma tecnica della comunicazione possibile. Pensate, ad esempio, all’anacronistica usanza statunitense del “messaggio alla nazione”. Essa aveva la necessità e lo scopo di mantenere vivo un rapporto tra delegati e deleganti, di fornire informazioni, di rassicurare, di stimolare comportamenti ed un senso di appartenenza. Ha svolto, cioè, un ruolo insostituibile nella storia di quella nazione e oggi viene conservata come cerimoniale anche se il livello di socializzazione viene svolto, secondo dopo secondo, da un apparato di comunicazione che in quel paese non conosce praticamente sosta.
Quello che voglio dire è che oggi le tecnologie di comunicazione sono in grado di “proporre”, anche solo con la loro esistenza, uno scarto con l’apparato consolidato delle forme democratiche fin qui sperimentate e regolamentate dalle Costituzioni.
Ma quali forme propongono, quali sono i terreni di coltura di un possibile attacco alle ispirazioni di fondo della nostra Costituzione e quali potenzialità potrebbero essere sperimentate per l’apertura di processi innovativi con un segno democratico?
Non vorrei che si corresse il rischio di dare l’impressione che stiamo parlando di un futuro lontano che non riguarda “la politica” ma semplicemente un dibattito teorico tra esperti del mondo della comunicazione: nel gennaio scorso lo speaker conservatore della Camera americana, Gingrich, all’interno di una conferenza da lui convocata, ha presentata quella che è stata definita la “Magna Charta per l’età della conoscenza”. Al suo interno, tra l’altro, si poteva leggere un passo che afferma: “Oggi i progressi spettacolari nella tecnologia delle comunicazioni aprono, per la prima volta, un enorme ventaglio di possibilità per la partecipazione diretta dei cittadini nella formazione delle decisioni politiche”. È quindi possibile, affermava il documento, che “la gente passi dal dipendere dai rappresentanti a rappresentare se stessa”.
I repubblicani americani propongono un terreno nuovo sul piano del rapporto tra governati e governanti che, seppur in forma ancora embrionale, rappresenta un terreno di confronto su scala mondiale. Ovviamente, accanto a queste scelte o proprio per esse, propongono la totale liberalizzazione dei vincoli legislativi all’intero comparto delle comunicazioni. Ed è proprio su questi punti, infatti, che ottengono trasformazioni profonde di leggi e regole costituzionali che erano, fino a poco fa, dichiarate intoccabili e immodificabili da tutto il corpo di quella società.
Le forme della democrazia, quindi, stanno mutando velocemente. Con esse e attraverso la forzatura del vincolo nazionale – e, quindi, in parte delle loro Costituzioni -, si stanno delineando le caratteristiche dei nuovi poteri del prossimo millennio. Internazionalizzazione dei mercati, finanza globale, movimenti di opinione mondiali, interdipendenza energetica e ambientale, si sommano e possono esistere se, e solo se, è compresente la possibilità della comunicazione generalizzata e globalizzata.
Questa impostazione è incoraggiata da un senso comune, da una critica diffusa e qualunquista sulle forme della rappresentanza e della mediazione politica che, nella sua versione più benevola, si è incarnata anche nel nostro paese nella proposta del maggioritario, e che punta ad accreditare il ruolo del rappresentante come una sorta di portavoce del “senso comune” della maggioranza, maggioranza alla quale deve assecondarsi, magari dopo essersi esposto al suo elettorato attraverso la mediazione elettronica dello schermo televisivo.
Della pressione delle nuove forme di comunicazione sulla politica abbiamo avuto un esempio pochi giorni fa, durante la vicenda della fiducia la governo. Se sotto la sede della Direzione si fossero radunate duecento persone per contestare la scelta del Partito, forse avremmo avuto un piccolo articolo in una pagina secondaria, ma il tam tam elettronico (incontrollato e incontrollabile) di qualche decina di fax, amplificato dagli altri mass media, fu trasformato in poche ore in una sorta di “insurrezione popolare”. Chi ha fatto qualche assemblea in quei giorni sa, invece, come l’area di problematicità fosse, in realtà, molto contenuta.
Siamo ad un passaggio d’epoca.
Il mondo che ci lasciamo alle spalle è il mondo ove i mass media classici (stampa, giornali, televisione, radio) avevano definito ambiti e ruoli precisi per il loro intervento. La democrazia, nei suoi vari modelli, aveva fatto i conti con tali strumenti e iniziava ad utilizzarli attraverso un loro inserimento nelle maglie e nelle strutture dei poteri.
Non a caso, in quell’era, il sistema della comunicazione veniva vissuto come parte integrante, ma giustapposta, del sistema del potere. Chi faceva, organizzava, trasmetteva comunicazione, veniva pensato come una sorta di “Quarto potere”, da affiancare ai tre classici come forma di “aggiornamento” novecentesco alla forma dello stato classico.
Oggi le cose stanno cambiando. Ed è forse proprio l’intima pervasività della comunicazione, che dalla fabbrica post-fordista arriva alla società, a connaturare le richieste di nuove forme dello stare insieme e delle sue regole.
Quello che vorrei mettere in evidenza, qui, è che attraverso i processi di globalizzazione, ma in particolare di quelli relativi alla comunicazione e specificamente a quella elettronica, si fa strada una idea nuova di relazioni umane che coinvolge tutti gli aspetti del vivere collettivo e, quindi, della politica.
Lo scontro tra i grandi colossi dell’intrattenimento sembra avere come una sorta di “effetto secondario”, cioè, la destrutturazione dell’intero assetto dei poteri e dei controlli formali precedenti all’avvento dell’era digitale. I grandi potentati economici sembrano esserne più consapevoli delle forze della sinistra (nelle sue varie articolazioni e dislocazioni geografiche).
Sembra che solo l’impresa sia in grado di dettare le regole del cambiamento (e quindi del comando) imponendo alla politica il consenso che ottiene direttamente attraverso l’apparato produttivo (le merci e le logiche del consumo) e quello riproduttivo (sempre meno le scuole e sempre di più i mass media legati, a doppio filo dal meccanismo pubblicitario, alle merci e alla loro logica). Chi vuole avere successo “deve” consolidare il senso comune e, quindi, inseguire gli stereotipi prodotti dall’apparato produttore di merci.
C’è un rischio autoritario in questa fase, un rischio più alto di altri sperimentati nel secolo che stiamo lasciando. L’avvento dell’era digitale presuppone che, per la prima volta nella storia dell’uomo, noi saremo in grado di “scrivere” tutte le forme di comunicazione fino ad oggi inventate (disegni, scrittura, pittura, suoni, parole, immagini fisse, immagini in movimento) su di un unico supporto, con una unica “penna universale”. Non voglio addentrarmi sulle conseguenze di tale possibilità, ma di una cosa vorrei che tutti noi fossimo consapevoli: se il “linguaggio” di tale forma di nuova comunicazione sarà codificato solo ed esclusivamente dalla logica mercantile, allora avremo da combattere non solo un “pensiero” unico, ma addirittura le “forme” del linguaggio codificate dal mercato capitalistico di fine millennio.
Questo, a mio avviso, è uno dei più grandi problemi che il movimento operaio, le forze antagoniste, i comunisti, si trovano già ad affrontare. Su questo terreno, però, scontiamo quello che può sembrare un paradosso. Proprio il movimento operaio, infatti, che per primo nella storia aveva posto il problema della dimensione internazionale stenta, in una fase come questa, ad avere un terreno di confronto, di analisi, di proposta. Due settimane fa a Bruxelles, su nostro invito, sei Partiti europei si sono incontrati per un primo scambio di analisi e di proposta. Si è convenuto che sul terreno della globalizzazione della comunicazione i comunisti non solo devono porre il problema delle esclusioni, già in atto, dal mondo della comunicazione informatica per fattori economici e culturali, ma che la battaglia è proprio sulla connaturazione dello sviluppo capitalistico di questa fase e del ruolo della comunicazione in esso. È sicuramente un buon avvio, ma occorre accellerare.
La comunicazione della fase digitale imporrà a tutte le forze politiche, al loro pensiero, di avanzare e reinventare modelli di società e di democrazia. Anche i patti scritti, le Costituzioni, saranno, perciò, terreno di questo scontro.
La tecnologia cambia le forme della politica. Occorre metabolizzare questo dato per non correre il rischio di essere sconfitti da apparati che sono, in realtà, più deboli di quanto possiamo a volte pensare.
Non starò qui a sostenere una presunta “neutralità” della tecnica da “riempire” di buone ragioni. Ma non tutto, però, è scontato. Non tutto è già scritto: non abbiamo solo un compito di resistenza, ma dobbiamo porci l’ambizione di un progetto che sia più alto. La nostra carta costituzionale, è stato detto, ha i caratteri di un programma che non chiude ma apre un’era; dentro questa fase di profonda trasformazione dobbiamo ispirarci ai suoi valori di fondo per non perdere la marcia che là è chiaramente indicata.
La Microsoft, quella di Windows ’95 e del 80 % del mercato del sistema operativo dei nostri PC, ha lanciato in questi mesi quello che sarà un suo cavallo di battaglia, una parola d’ordine che, se mi passate la traduzione, può essere così sintetizzata: “Sta sorgendo una nuova alba di democrazia grazie alle immense possibilità comunicative di Internet. Milioni e milioni di persone superano i tradizionali confini degli Stati, si collegano tra loro, in totale libertà, e creano gruppi informativi che sono al di fuori di ogni controllo governativo.”
Ora, questo nuovo grado di “libertà”, nasce in una condizione di quasi monopolio del mercato informatico. A differenza della rottura rappresentata dall’invenzione di Gutenberg della stampa a caratteri mobili, che ruppe il monopolio della riproduzione e della diffusione del sapere, saldamente in mano alle strutture religiose, per aprirlo a nuove classi sociali e determinando le condizioni future per vere e proprie “rivoluzioni” sociali – si pensi ad esempio al ruolo della stampa nella rivoluzione francese -, la rivoluzione informatica avviene in una condizione di monopolio tecnologico (e di mercato) che è in grado di definire modalità tecnologiche, di prodotto, di linguaggio.
Descrivendo la situazione attuale potremmo sostenere che un monopolio tecno-finanziario sta determinando la nascita di un nuovo “Establishment” mondiale, totalmente plasmato dalle condizioni tecnologiche e di consumo imposte da esso, a cui viene affidato un luogo (appunto la rete internet) in grado di fungere da laboratorio per la definizione degli assetti e delle caratteristiche delle nuove tendenze del “Potere” capitalistico.
Una sorta di crogiolo nel quale si mette a punto la forma dell’egemonia globale prossima ventura, nel quale si omogeneizzano forme di comunicazione, di aspettative, di comportamento, in particolare attraverso lo sviluppo di forme di “intrattenimento” avanzate. E, tutto ciò, con la consapevolezza che il livello di esclusione da tale processo riguarda e riguarderà pezzi enormi delle società attuali e future anche nell’occidente avanzato.
Siamo, quindi, a nuovi processi di separatezza, di esclusioni sia dai luoghi e dai poteri della trasformazione, sia dai luoghi nei quali si determinano le caratteristiche dei meccanismi di produzione e di riproduzione sociale.
Ma, proprio per ciò, l’accellerazione che i linguaggi delle tecnologie dei mezzi di comunicazione di massa hanno introdotto nel corpo sociale e nell’ambiente culturale, rappresenta una contraddizione forte dello sviluppo capitalistico di questa fase, una contraddizione aperta sulla quali i comunisti non possono non inserirsi con la loro azione.
Il linguaggio, per usare una metafora informatica, rappresenta il “sistema operativo” di una società e, quello Occidentale si sa, è fondato sulla codifica del linguaggio greco e latino. È ormai convinzione diffusa che la loro apparizione ebbe un impatto fisiologico sul nostro cervello tale da orientare la stessa conoscenza verso una cultura del “punto di vista” soggettivo ed egocentrico.
Lo sviluppo capitalistico, per come l’abbiamo conosciuto nella fase di sviluppo industriale, ha funzionato su questo linguaggio, sul “sistema operativo” che oggi, però, è messo in discussione dallo sviluppo tecnologico che esso stesso ha prodotto.
Certo, le modalità e le condizioni di fruizione e produzione che propone e spesso impone allo sviluppo il quadro capitalistico sono tali da rendere accreditabili le posizioni più apocalittiche; ma gli spazi che tali utilizzi aprono non possono essere lasciati liberi. Devono essere percorsi con impianti teorici di critica e con prassi politiche appropriate.
Questo ci consentirebbe, a differenza di quanto avvenne per il fordismo, di intercettare il nuovo modello produttivo della società dell’informazione mentre è in via di consolidamento e di strutturazione e di incidere sulla creazione di “senso” e di percezione del reale che deriva dalla diffusa e pervasiva innovazione tecnologica digitale.
La rivoluzione telematica può determinare la creazione di una “interfaccia” in grado di amplificare le forme e le possibilità di contatto tra umani oppure un loro definitivo controllo.
Anche per questi motivi, le modificazioni costituzionali non possono essere decise solo al tavolo dei poteri forti, ma devono essere in grado di intersecare le nuove soggettività ed i nuovi conflitti.
Nuove forme di democrazia, di partecipazione, nuove forme della politica, in grado di cortocircuitare quelle del leaderismo presidenzialistico, figlie dei vecchi apparati della comunicazione di massa, sono possibili se saremo in grado di progettare il “Come potremmo vivere”.
Rifondare un pensiero comunista, oggi, credo sia anche questo.