Rai: archiviare la stagione della lottizzazione e aprirsi a un pluralismo reale e rappresentativo

Quello che attraversa il nostro paese, ma non solo il nostro, è la ricerca di una soluzione taumaturgica, di una scelta che risolva tutti i problemi, di un capo a cui affidare le sorti e i propri destini. È l’effetto della crisi e della difficoltà di trovare una via di uscita, di un senso nuovo da dare alle nostre gesta, ai nostri atti, alla nostra vita. Per questo si sta affermando un modello di politica che ricerca nell’uomo solo al comando la soluzione per tutto. Vale per la politica e vale per le scelte che la politica mette in campo con le proprie decisioni. Il caso della Rai non fa eccezione. Il governo si avvicina a definire la propria linea e il tema del dibattito non si concentra sul ruolo del servizio pubblico nell’era digitale, a cosa debbano servire la radio, la televisione e i contenuti sul web per un servizio pubblico in una fase di totale trasformazione del ruolo dei mass media. L’unica preoccupazione sembra essere solo e sempre la stessa: chi decide chi comanda in Rai?

Le riforme degli anni ’70 avevano aperto all’ipotesi di una capacità di decisione multiforme, nessun uomo solo al comando, la possibilità/necessità di processi partecipativi (interni ed esterni all’azienda) che consentissero un rapporto permanente tra ciò che si poteva fare e produrre con la società italiana nelle sue stratificazioni. Parlamento, associazioni, organizzazioni del mondo del lavoro, della cultura, avrebbero dovuto e potuto garantire un rapporto permanente tra l’interno della RAI e la società. Quello era il filo rosso tracciato dal senso delle riforme di quegli anni, un filo rosso in totale continuità con la nostra Costituzione repubblicana che aveva costruito il proprio equilibrio proprio nell’impedire la possibilità di avere un uomo solo al comando. Chi si era impegnato a scriverla usciva da un ventennio nel quale aveva sperimentato i guasti profondi (fino alla guerra distruttrice) di una tale impostazione.

Oggi lo slancio riformatore di quegli anni sembra svanito e non solo sul versante della Rai.

La stessa costituzione viene considerata ‘vecchia’ proprio perché basata su scelte partecipative che allungano i tempi di decisione, pongono veti, costruiscono l’immobilismo. Invece di lavorare sulla riforma di tali meccanismi, sulla costruzione di una esplicita dialettica di posizioni, si ricerca la soluzione breve, quella della persona in grado di risolvere da sola questa impasse.

La soluzione che avanza nel Governo è quella di un amministratore delegato con tutti i poteri. Potrebbe risolvere la situazione gestionale? Ricordiamoci i casi Alitalia, Finmeccanica o quello dell’ENI, per non parlare delle miriade di aziende pubbliche minori incapaci di svolgere la missione affidata e/o di accumulare perdite inaudite. Il punto, quindi, non è lì. Quello che si dovrebbe garantire è la riapertura di un dibattito vero tra Parlamento e società, tra i decisori eletti e i rappresentati per individuare la nuova missione del servizio pubblico. Una volta compresa tale missione, le decisioni di governance diventerebbero più chiare.

La Rai è un patrimonio di tutti noi e possiede risorse ancora strategiche sia fisiche (come la vicenda Rai Way indica) sia intellettuali. Una società come la nostra, in piena crisi di senso del fare e della vita, individuale e collettiva, avrebbe tanto bisogno di un servizio pubblico radiotelevisivo in grado di archiviare la stagione della lottizzazione e aprirsi ad un pluralismo reale e rappresentativo. Ne guadagnerebbe la qualità della politica, della società e la nostra stessa economia.

 

ArciReport, 12 marzo 2015

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